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Bertrando e Silvio Spaventa nacquero, abitarono e tornavano nel palazzo (vedi foto in alto) in Via Aruccia Superiore ex Via Gallinaro. La casa è meta di pellegrinaggio da parte di studiosi, personaggi illustri (è stata visitata anche da Elena Croce) e semplici cittadini. All´interno della casa possiamo trovare molte foto della famiglia Spaventa e documenti pubblici che ci aiutano ad identificare la consistenza originaria dell´intero palazzo; infatti la zona ove attualmente è posto il giardino era prima occupata da un´ala dello stesso fabbricato che si estendeva fino all´attuale Vico Fornicello (ex Via Supporto) passando su un supportico posto sulla Via Pistreola. Successivamente gran parte di quest´ala è crollata. Il tutto era riportato nel catasto misto del comune di Bomba del 1810 all´art. 262 in testa a Spaventa Sig. Beltrando (nonno dei famosi Beltrando e Silvio). Sez. F (fabbricati) numero d´ordine 377 Via Pistreola, 5 vani – 378 Via Pistreola, 13 vani – 379 Via Pistreola, 4 vani – 380 Via Pistreola, “Trappeto” (Frantoio) – 410 Via Supporto, 1 vano – 413 Via Supporto, 1 vano – 523 Via Gallinaro 8 vani. I visitatori possono anche prendere visione di un accurato albero genealogico che illustra la discendenza della famiglia. Vi abita, attualmente il pronipote Rosario. N.B.: Le visite vanno preventivamente concordate. Si prega di contattare il Comune.
Silvio Spaventa nacque a Bomba, in provincia di Chieti, paese che allora contava circa 2500 abitanti, il 10 maggio del 1822. I genitori, don Eustachio Spaventa, di professione “galantuomo” e Maria Anna Croce, abitavano in via del Sopporto (oggi Vico Fornicello) in una casa che si estendeva, tramite un arco su via Pistreola, sull´attuale orto-giardino e si congiungeva al fabbricato di via Aruccia dove al numero 3, attualmente, accede all´abitazione il pronipote Rosario. Sul muro dell´antica abitazione degli Spaventa, di fianco ai resti di una vecchia fontana, si trova una piccola lapide con una scritta che ricorda un antenato del Nostro. Rimase a Bomba fino a 14 anni quando, morta la madre nel 1836, perché proseguisse gli studi, Silvio fu mandato dove già studiava il fratello Bertrando, che aveva 5 anni più di lui, nel Collegio Diocesiano di Chieti. Gli Spaventa si trasferirono a Montecassino nel 1838 dove Bertrando aveva avuto, in quel collegio, un incarico per l´insegnamento della matematica e della retorica. Nel 1843 Silvio si recò a Napoli e si stabilì presso lo zio Benedetto Croce (fratello della madre e nonno del noto filosofo, storico e critico letterario), consigliere della Suprema Corte dove fece il precettore dei suoi due figli: Pasquale e Marianna. Fondò “Il Nazionale” (il nome ne rivela lo scopo). Il 1º marzo 1848 uscì il primo numero: Intorno al giornale si era raccolto il gruppo di intellettuali borghesi prevalentemente liberali, ma anche monarchici e conservatori. Dopo il ritiro dello Statuto concesso e ritirato dal re Ferdinando, la popolazione si ribellò e, a mezzogiorno del 15 maggio 1848, cominciarono gli scontri tra la gente e le guardie svizzere, culminati nel bombardamento della città ordinato dal re Ferdinando II e che valse a questi l´appellativo di “re bomba”. La libertà richiesta si sciolse in un bagno di sangue: bande di lazzaroni si diedero alla caccia dei liberali e al saccheggio delle loro case; reparti di mercenari svizzeri commisero atti di barbarie inauditi; feroci bastonature, arresti indiscriminati, quasi sterminata la Guardia Nazionale, donne violentate e uccise, bambini assassinati, abitazioni devastate. Il giorno dopo il re sciolse la Camera dei Deputati. Il 19 marzo 1849 Silvio Spaventa fu arrestato e rinchiuso nelle carceri S. Francesco a Napoli. L´arresto di Spaventa si basava sulle seguenti accuse: 1) aver partecipato ai fatti del 15 maggio (“cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato, nel fine di distruggere e cambiare la forma di governo, ed eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l´autorità reale, nonché di avere in effetti eccitato la guerra civile tra gli abitanti della stessa popolazione: reati consumati nella capitale il giorno 15 maggio 1848″); 2) avere partecipato al Congresso di Torino e cospirato per rendere la Sicilia indipendente. Reato consumato nell´ottobre 1848 partecipando colà al Congresso Federativo; 3) aver fatto parte, in qualità di segretario, del Comitato di pubblica sicurezza presieduto dal marchese Tupputi, e avere sottoscritto una lettera rivolta al comandante la Real Piazza e Provincia di Napoli ingiungendogli di tenersi agli ordini del Comitato di Pubblica Sicurezza di cui facevano parte alcuni Deputati Il 20 marzo 1849 fu interrogato per la prima volta, ma tutto il processo durò fino all´8 ottobre 1852, giorno della condanna. Dagli arrestati fu presentata un´ampia lista di testimoni a discarico: C.Faccioli, I.de Cesare, G.Perillo, M.Turchi, D.Capitelli, L. Tarantino, A.de Luca, C.Tommasi, F.de Blasis, V.de Thomasis, A. Dentice. Le loro dichiarazioni concordarono nel descrivere Spaventa tra il 13 e 15 maggio 1848 come equilibrato, fermo nella difesa della legalità e sollecito nel tentativo di risparmiare al Paese uno spargimento di sangue. Il processo durò più di tre anni e mezzo e si concluse con una sentenza di condanna a morte col terzo grado di pubblico esempio (essere impiccati con indosso una veste nera, a piedi scalzi e con gli occhi bendati) per Spaventa e per altri sei imputati. Due volte furono accompagnati in confortatorio. Invece della morte fisica venne quella civile perché la pena venne commutata in ergastolo il 19 ottobre 1852. L´11 gennaio 1859 Spaventa e altri ricevettero la notizia che sarebbero stati portati fuor d´Italia. Il 18 Gennaio 1859, Spaventa e altri 68 condannati politici, “il fiore del patriottismo liberale napoletano”, furono imbarcati sulla nave “Stromboli” per essere trasportati in America. A Cadice, dopo 20 giorni di sosta, furono imbarcati su un piroscafo, lo “Steward”, idoneo ad attraversare l´oceano. Sullo stesso era riuscito a farsi assumere come cameriere, il figlio di Luigi Settembrini, giovane ufficiale della marina britannica che, in seguito ad un ammutinamento avvenuto durante il viaggio, seppe condurre la nave degli esuli in Irlanda dove sbarcarono il 6 marzo a Queenstown, nella Baia di Cork. Da qui partirono per Londra e, successivamente per Torino. Ma non esitò a ritornare a Napoli per preparare l´insurrezione contro i Borboni mentre Garibaldi risaliva la penisola con i suoi. Dopo l´unificazione d´Italia divenne sottosegretario agli interni e poi ministro dei Lavori Pubblici fino al 1876. Fondò e presiedette, in seguito, la IV Sezione del Consiglio di Stato che ancora oggi è un pilastro delle libertà democratiche dei cittadini. Morì a Roma il 23 giugno 1893. Ebbe funerali di Stato e la sua salma è sepolta nel cimitero del Verano nella zona Quadriportico.
Approfondimento:
Nacque a Bomba nel 1822 da famiglia borghese. Silvio, insieme col fratello Bertrando, ricevette la prima educazione in casa, poi iniziò i suoi studi regolari nel seminario di Chieti e successivamente a Montecassino. La sua vera passione, sin dagli anni della prima giovinezza, furono gli studi filosofici, ma nel corso della sua vita si dedicò con la stessa fermezza, integrità, coerenza alla politica e al diritto. Fu, infatti, patriota esemplare per la sua devozione al paese e al bene comune, uomo politico incorruttibile e lungimirante per le sue capacità di governo, teorico dello stato liberale di diritto per la sua profonda dottrina filosofica e giuridica. Morì a Roma nel 1893. Il problema dello Stato assume in Silvio Spaventa la concretezza storica attraverso la quale soltanto era possibile la sua soluzione liberale. Se prendiamo come termine di confronto Gioberti stesso nel Rinnovamento, dove sono le raticamente i rapporti intuiti dal filosofo torinese e con ciò stesso avvii a risolversi il loro contrasto; ma che Silvio riesca per il primo, in seno a questa corrente, a scorgerli nel suo aspetto storico e reale, non come aveva tentato il Gioberti stesso nel Rinnovamento, dove sotto le radici del riformismo più che del liberalismo, bensì come voleva lo spirito stesso della tradizione idealistica e, insieme, della politica italiana. Certo, se noi guardiamo al Silvio Spaventa direttore del Nazionale di Napoli nel ´48 e alla corrispondenza sua col fratello fino al´60, tale nuova mentalità ci appare ancora in formazione. Da una parte essa vive nello studio di Hegel e nella ricerca filosofica un alto dramma speculativo: dall´altra, però, questo suo impulso concettuale non collima con la concezione politica, che tende a sollevarsi fino ad esso, ma é pur sempre legata a una impostazione contingente dei propri termini, al “dato” quarantottesco non trasceso più di quanto lo trascendesse la prassi cavouriana. C´era infatti un contrasto immediato da superare, tra la razionalità hegeliana della storia e il dogmatismo della rivoluzione, tra la necessità dello svolgimento e la mutazione improvvisa che di esso si veniva a richiedere: se la storia è “ragione tutta spiegata”, com´è possibile che su tutto un filone di essa si pronunci il negativo verdetto rivoluzionario? e se la medesima storia è così perché è così, che diritto ha l´individuo o la parte di ribellarsi ad essa? L´opposizione del singolo e della collettività, della coscienza e dell´autorità, rimasta impigliata nelle maglie della dialettica in Bertrando Spaventa, troncata imperiosamente a favore del secondo termine dal De Meìs, appare nel nostro areno ardua appunto perché storica: egli comincia tosto a intravedere che si può risolverla nel senso dell´immanenza secondo cui vive lo spirito nell´individuo, la società nel cittadino, cioè come coscienza di un valore infinito in fieri, che corre dall´uno all´altro contrario. Anche il maggior fratello aveva indicato questa soluzione, e tuttavia non l´aveva attuata, ostinandosi a presupporre quel valore nell´universale storico e civile, come già formato o formantesi rispetto all´individuo: Silvio invece scorge che esso nasce in questo medesimo individuo e solo qui trova la sua specificazione concreta. Non si tratta più della “scoperta” dell´infinito che è “la Società: ma della Consapevolezza di esso, come creatura nostra e insieme nostra natura; lo Stato cessa di essere la realtà e la verità dell´individuo come altro dà questo, per diventare la verità della sua libertà; e la libertà non è coincidenza esterna con la legge, ma interna e autonoma unificazione di arbitrio e di volontà legale il cui risultato soltanto ci dà il principio dello Stato. Porre effettivamente lo Stato nel vivo agone dello spirito, senza alcuna trascendenza: rovesciare la teologia hegeliana e giobertiana dell´Idea nella compiuta autonomia della storia, non estrinsecamente come avevano creduto di fare Feuerbach e Marx, ma facendo capo alla riforma degli stessi concetti in questione: fondare davvero il liberalismo come non c´erano riusciti peranco né i filosofi né i guelfi moderati, e come Cavour aveva cominciato a delinearlo praticamente; così si può riassumere il compito di Silvio Spaventa e della sua critica liberale. Il compito era grave, ma non si può dire che sian mancate le forze all´ardito risolutore. Il quale, tenendo fisso lo sguardo al concetto dello Stato come perfezione della libertà, in questa libertà ricercò le radici dello Stato e della Nazione: perché la libertà si fa Stato in quanto giunge a razionalizzarsi, all´autocoscienza della propria ragione: e lo Stato si fa nazionale in quanto esso è concreto, è determinato, è storico. Non mai lo Spaventa dimentica, nel definire questa dottrina, il punto dì vista individualistico donde è partito: evitando accuratamente di negare l´individualità a profitto dell´universale, una volta pervenuto ad esso da quella, egli mostra come la prima si coordini e si organizzi nel secondo, a quel modo che il molteplice nell´uno. Vale a dire che, se lo Stato è frutto di un´elaborazione varia e pluriversa, liberale nel suo progresso prima ancora che nel prodotto, allora ciò che via via promana da questa elaborazione non si annulla perché essa è (relativamente) compiuta, ma confluisce nello stesso compimento e ne rappresenta la base. La volontà soggettiva, insomma, non solo è un momento necessario della libertà e della legge, ma la loro prima forma, su cui concrescono le forme più alte e perfette e che tuttavia esse conservano come l´albero conserva la radice, perché ne hanno bisogno qual nutrimento della propria vita. Su tale teoria si assidono, per Silvio Spaventa, la giustificazione del regime rappresentativo, in cui si legittima l´iniziativa particolare, e il diritto ad esistere dei valori politici locali (municipio, provincia, regione). Uno Stato che rinnegasse la sua faticosa genitura da questi ordini di vita sociale e di pensiero, che volesse sopprimerli sotto di sé per estendere senza confini il proprio potere, si taglierebbe gli unici piedi con cui può seriamente camminare e nell´ipotesi meno peggiore rimbalzerebbe a un grado e a un epoca di sviluppo di qualche secolo addietro. In pari tempo che sarebbe assurda la negazione dello Stato da parte dei valori particolari, che portano a costituirlo, se essa mirasse a distruggere in assoluto la statalità: quando si presenta, questa negazione è piuttosto l´affermazione di un nuovo Stato, che si erige dì fronte all´antico. La storia compare pertanto nella sua positiva dialettica, come vicenda che progredisce di balzo in balzo, attraverso il crogiuolo delle coscienze, delle lotte, delle sublimazioni: e la prassi rivoluzionaria si spiega come la figlia stessa del regime ch´essa vuol abbattere, sussulta con esso dentro un campo più grande e più sicuro di giudizio. Questo Stato spaventiano deve essere monarchico e laico. Monarchico, perché è sua funzione unificare democrazia e aristocrazia, libertà e autorità, governo rappresentativo e fermo potere sovrano: ora, soltanto la monarchia costituzionale sembra poter assolvere questo compito. Laico, perché ha già il divino in se stesso, e in questo divino la sua religione. Quest´ultima conseguenza logica delle sue premesse non fu tuttavia svolta con pieno rigore dallo Spaventa: egli la pose come un corollario della spiritualità antiecclesiastica. La forma coerente del principio idealistico da lui affermato avrebbe dovuto essere che la coscienza dell´infinito in cui si caratterizza lo Stato esclude e supera ogni altra infinità, oppure quando si piega a questa, gli è dall´infinito della religione. E pertanto il nostro postulava l´unità storica dei due infiniti nella loro conciliazione e nel loro reciproco rapporto: il che è, come tutti sanno, un modo dì girare la difficoltà, non di superarla. Lo Spaventa stesso aveva pensato, nel periodo cavouriano, che il rinnovamento politico dovesse portare a un rinnovamento religioso: lo Stato nuovo, o meglio la storia dello Stato moderno, crea ed esprime da sé la sua nuova chiesa. Tale è la forma della Protesta, che non sarebbe stata, nelle sue molteplici ramificazioni, se non avesse avuto dietro a sé un moto politico-economico che si staccava dal Medio-Evo; tale è l´aspirazione del neoguelfismo, che corre dal Primato alla Riforma cattolica. Ma quando, trent´anni più tardi, il teorico della Destra torna ad affrontare lo stesso problema, egli ridiscende al livello della formula cavouriana, superandola soltanto nella considerazione concreta delle forze che stanno dietro alle due libertà, della Chiesa e dello Stato. Per lui l´infinità dello Stato consiste dunque nell´infinità temporale; e ciò rivela una parziale e voluta limitazione del suo liberalismo, che non riesce a definire ancora come possa essere religiosa la politica in qualunque punto e forma del suo processo, comprendente anche la Chiesa, e invece rifugge dall´unica conseguenza percepita, la statolatria demeisiana, preferendo arrestare in questo senso il proprio sviluppo teorico a un compromesso. Nessun compromesso per contro nella serena e austera visione della politica italiana. Qui lo Spaventa fece tesoro del proprio pensiero teorico per differenziarsi nettamente così dalla corrente moderata tradizionale, come dalla forma anglicizzante del liberalismo: e in pari tempo per accentuare la distanza che separava la Destra dalla democrazia di sinistra, vagamente riformistica e settariamente laica. La natura della rivoluzione voleva, secondo egli stesso chiarì, che al trionfo pratico succedesse la coscienza dei legami avvincenti al passato e della realtà storica concreta; la natura del rapporto fra il particolare e la collettività, che lo Stato fosse un fattore positivo, non un legame estrinseco di elementi restii a una sostanziale unificazione e che d´altra parte esso Stato non evirasse i propri genitori né soffocasse i propri figli, come il dio del mito. Ma poi, questa rivoluzione avvenuta in Italia tanto meno autorizzava qualsiasi astrattismo quanto più essa si era attuata come espansione storica di una forza costituita; questo Stato italiano minato da tante incomprensioni e da così ostili malvoleri, non poteva non essere unitario e tendente in ogni modo a una libera e disciplinata unità. Non lo Stato fuori della vita regionale, né lo Stato storico, che rifugge dalla utopia come dalla reazione, che è “giustizia, difesa, direzione”, che mira a essere in ciascun attimo del suo divenire, e a divenire in ciascun aspetto del suo essere. Lo stato non è il diritto contro l´individuo; come il cittadino non può essere l´individuo contro il diritto: ma è la “coscienza del diritto e della giustizia” di fronte e dentro al cittadino, è la forma della storia nazionale che assume i valori singoli senza annullarli. Stato di diritto in due sensi: nel senso della collettività verso i suoi membri, ma anche nel senso dei membri verso la collettività. Silvio Spaventa che nel´48 aveva definito il movimento proletario francese come una necessità storica di quella nazione, nel´76, alla Camera, ricordava con piena coerenza liberale che dal principio di eguaglianza “sorge un´esigenza terribile nella coscienza delle moltitudini, alle quali non basta di essere eguali dinanzi alla legge, ma intendono di sollevarsi, intendono di partecipare ai beni della vita”. Questo è l´impulso che nasce nello Stato di volta in volta a modificarlo, secondo la classe in cui si specificano quelle moltitudini, secondo la forma e i limiti secondo cui s´intendono questi beni: tale è, sotto una visuale economica, la dialettica del governo liberale. Ma la dialettica nel nostro si impostava con più sicura universalità, che trascende una semplice ammissione di valori economici nella politica liberale, come troppo fu incline a ritener sufficiente il liberalismo della Destra degenere: essa poteva già opporsi al marxismo sullo stesso suo terreno, sia perché ne aveva dentro di sé il principio storico e non ne aveva le possibilità riformiste, perché era veramente un metodo e un indirizzo, e non un dogma demagogico come quelli che vedeva trionfare con la Sinistra. (a cura di SANTINO CARAMELLA)
Beltrando all´anagrafe, ma per tutti Bertrando, nacque a Bomba il 26 giugno 1817 e morì a Napoli nel 1883. Studiò al Seminario Diocesano di Chieti dove lo raggiunse il fratello Silvio nel 1836. Gli Spaventa si trasferirono a Montecassino nel 1838 dove Bertrando aveva avuto, in quel collegio, un incarico per l´insegnamento della matematica e della retorica. Nel 1845 si trasferì a Napoli dove aprì una scuola di filosofia molto frequentata da giovani intellettuali per le idee hegeliane che l´animavano, ma anche molto avversata dai Borboni che consideravano liberali e quindi rivoluzionari e sovversivi coloro che professavano l´hegelismo. Sacerdote, partecipò attivamente alla vita politica prima napoletana e poi italiana accanto al fratello Silvio. Dopo la repressione del 1848 da parte dei Borboni a Napoli, Bertrando fu costretto a rifugiarsi a Torino dove svestì l´abito talare e, per vivere, scriveva su giornali e impartiva lezioni private per non scendere a compromessi con la piccola borghesia intellettuale piemontese incapace di uscire dai ristretti limiti di una indagine speculativa provinciale. In Piemonte, dove affluisce la gran parte degli intellettuali da ogni parte d´Italia, si ricostituiscono gruppi di studiosi che nelle loro terre d´origine avevano dato notevole influsso alla formazione di una coscienza nazionale. Cosicché il movimento filosofico italiano, impedito in Napoli, dove ebbe principio – proclama Spaventa – “debbe come movimento politico ricominciare in Piemonte”. Se a Napoli la rivoluzione è soffocata dalla violenza borbonica prima ancora della piena maturazione delle sue forze, e con la censura della stampa le viene tolto ogni serio mezzo di riaggancio alle correnti progressive del pensiero europeo, la lotta continua invece aspra e ininterrotta oltre i confini del regno di Ferdinando, dove anzi il fenomeno del fuoriuscitismo acquista in breve una rilevanza di primo piano nella guida ideologica del movimento nazionale: “Napoli per ingegno e per animo, è il fiore dell´emigrazione italiana” dirà Gioberti. Questo giudizio vale anche e, forse più, per il vasto influsso esercitato sul provincialismo del Piemonte da quell´illustre gruppo di esuli comprendente uomini come De Sanctis, De Mais, Tomasi, Mancini, Pisanelli, Scialoja e lo stesso Bertrando Spaventa. Così, sgombrato il campo dalla falsa alternativa dell´eclettismo, ormai in fase di regresso, dalle incrostazioni equivoche, dalle mescolanze ancora sussistenti a Napoli, l´idealismo italiano cresce tanto in saldezza dottrinaria quanto in ampiezza di rapporti e contatti col mondo esterno. Nel giro di pochi anni, tra il 1851 e il 1856, Spaventa allarga notevolmente la sfera delle proprie conoscenze in fatto di filosofia classica tedesca, legge e rilegge le grandi opere della maturità di Hegel, s´incontra con testi hegeliani di altri tedeschi tra cui specialmente Fischer, e porta a compimento, insieme ad una svariata produzione giornalistica, l´importantissimo lavoro di penetrazione critica esplicativa della Fenomenologia, sul quale riferisce in una nutrita serie di corrispondenza con il fratello Silvio, allora in carcere a Santo Stefano. Bertrando Spaventa fu il rappresentante principale dell´hegelismo italiano che egli rielaborò in una forma personale, interpretandola come una filosofia atta a liberare la cultura italiana da tutte le vecchie correnti. Tentò di ritrovare una linea di sviluppo della filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia europea. Tale rapporto, dice Bertrando, è circolare: la filosofia moderna sorge in Italia con il Rinascimento (Bruno, Campanella), continua fuori d´Italia con Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel, per ritornare in Italia con Vico e principalmente con Rosmini e Gioberti, i quali fanno rivivere il nucleo più essenziale del pensiero kantiano e idealista. Dopo l´unificazione fu professore di filosofia presso le università di Torino, Bologna, Modena e quindi di Napoli dove insegnò fino alla morte avvenuta nel 1883.
Approfondimento:
Bertrando Spaventa fu il maestro per eccellenza dell´hegelismo italiano, sia per la struttura filosofica sia per la ricchezza e l´organicità della sua posizione filosofico-culturale. Nato a Bomba, in provincia di Chieti, nel 1817, studiò nei seminari di Chieti e di Montecassino e si fece prete nel 1840. Successivamente insegnò a Napoli e si avvicinò ai circoli liberali, partecipando alla redazione del “Nazionale”. Nel 1848 lascerà Napoli per trasferirsi prima a Firenze, poi a Torino. Ed è nel periodo torinese (chiusosi intorno al 1860) che Spaventa viene elaborando il suo sistema filosofico e il suo pensiero politico. L´uno e l´altro muovono inizialmente dalla duplice riflessione sul distacco (avvenuto con la Controriforma) della filosofia e della stessa società italiana da quella europea, e sulle “terapie” intellettuali ed educative necessarie per superarlo. Spaventa si sofferma inoltre, con particolare attenzione, sul pensiero di Hegel, concepito come il punto più avanzato del pensiero europeo e come il mezzo più adatto per costruire, anche in Italia, una cultura di tipo moderno: poichè, secondo Spaventa, ” il far intendere Hegel all´Italia, vorrebbe dire rifare l´Italia “. In questi anni il filosofo abruzzese pubblica gli articoli (più tardi riuniti da Giovanni Gentile) su La politica dei gesuiti nel secolo XVI e XIX e su La libertà d´insegnamento , alcuni studi su Campanella e Giordano Bruno (1854-55), un lavoro su Kant (1856), e alcuni Studi sopra la filosofia di Hegel (1850). Tornato dopo il 1860 a Napoli, approfondisce la sua interpretazione di Hegel e quella della filosofia italiana moderna, polemizzando, da una parte, con il Positivismo e, dall´altra parte, con lo spiritualismo. Nel 1862 pubblica le lezioni napoletane del novembre-dicembre 1861, raccolte da Gentile sotto il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea . Nel 1863 escono Le prime categorie della logica di Hegel , nel 1867 i Princìpi di filosofia , nel 1868 Positivismo, paolottismo, razionalismo , nel 1874 Idealismo o realismo? . Spaventa muore nel 1883, nello stesso anno in cui muore anche Marx. La filosofia italiana nasce, sostiene Spaventa, col Rinascimento, con Bruno; Campanella è già il “pensiero” di Cartesio, come Spinoza è ” la chiarezza di Bruno “. Con Giambattista Vico si afferma il principio dello “sviluppo” che esige una nuova “metafisica”: quella attuata più tardi da Kant e successivamente da Fichte, Schelling e Hegel. Con l´Ottocento la filosofia europea ritorna (dopo una lunga assenza) in Italia, con Galluppi che è un pò il “nostro Kant”, con Rosmini che è “Kant inteso bene” e con Gioberti che “compie” Rosmini, come Fichte, Schelling ed Hegel “compiono” Kant. A proposito di Gioberti, scrive Spaventa in La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (lezione VIII): ” Gioberti rappresenta la vera unità dello spirito, il vero concetto dello sviluppo, la vera ed assoluta psiche: una attività che come due attività è una attività, un ciclo che come due cicli è un unico ciclo. Tale è il vero ed assoluto spirito: il Creatore. Così e solo così, il psicologismo di Gioberti è psicologismo assolutamente trascendentale, cioè il vero ontologismo, e, direi io, il vero spiritualismo “. “Correggendo” Gioberti si trova infine Hegel, e così la filosofia italiana si riallaccia definitivamente alla filosofia europea. Il disegno di Spaventa è certamente forzato, ma la linea culturale che esso implica ha un preciso significato. Si tratta di stabilire e sviluppare una rete di scambi organici tra la cultura della nazione appena nata nella nostra penisola e quella dei Paesi stranieri intellettualmente e socialmente più evoluti. In questo contesto, il punto di riferimento privilegiato da Spaventa è il pensiero tedesco, soprattutto quello hegeliano. L´interpretazione che Spaventa viene elaborando di Hegel (soprattutto dopo il 1848) è fondata sull´inversione, rispetto all´interpretazione ortodossa, del rapporto tra Fenomenologia dello spirito ed Enciclopedia e sulla complementare “riforma della dialettica”. Per Spaventa la Fenomenologia precede e fonda l´ Enciclopedia e la Logica stessa, poichè senza coscienza non c´è scienza e poichè il pensiero è sempre soltanto uno: pensiero che pensa. L´itinerario gnoseologico-coscienzale della Fenomenologia non è l´introduzione al sapere ma il sapere stesso. Non dunque il Sistema è il cuore stesso del pensiero hegeliano, ma il metodo, cioè la dialettica: una dialettica che però Spaventa riforma in senso quasi fichteano, dando maggior importanza al momento della soggettività della coscienza e dell´atto del pensare rispetto ai momenti e fasi dell´oggettivazione e della sintesi. Anche la politica di Spaventa, a parte la parentesi liberale del “Nazionale”, si ispira ad Hegel: è laica, ma legata ad un forte senso dello Stato. In esso Spaventa scorge non solo l´unico organismo che dà unità e senso politico alla nazione, ma anche la sorgente dei princìpi e dei valori ispiratori di un armonioso sviluppo civile e culturale. In altre parole, sia gli individui sia la comunità devono trarre dallo Stato l´alimento necessario ad una crescita ordinata e corretta. E´ questa la teoria dello ” stato etico ” accolta dalle più disparate forze politiche, e utilizzata nel Novecento anche in una prospettiva totalitaria ben lontana dagli ideali e dai programmi di Spaventa. In questa concezione della politica si saldano insieme il concetto di “tradizione nazionale italiana” e quello di “sovranità etica razionale” che implica, accanto alla sostanziale laicità, anche una funzione educatrice dello Stato. (a cura di Diego Fusaro. www.filosofia.3000.it)
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